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SERIE D GIRONE E - 1a giornata

RISULTATI CLASSIFICA PROSSIMO TURNO
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Gavorrano4 set15Tau Altopascio
Ghiviborgo4 set15Ponsacco
Orvietana4 set15Arezzo
Poggibonsi4 set15Grosseto
Sangiovannese4 set15Ostiamare
Seravezza4 set15Città di Castello
Trestina4 set15Pianese
Terranuova4 set15Montespaccato
MONDO AMARANTO
Giacomo a Santorini
NEWS

Il prof è sempre in forma!

Fabrizio Bulletti per trent’anni è stato il preparatore atletico amaranto e ha torchiato in allenamento decine e decine di giocatori: “Farina era un grande atleta, Macina quello che soffriva di più”. Suo genero è il fisioterapista dell’Arezzo, suo figlio lavora con Cosmi: “Ma in casa non si parla di calcio”. Oggi deve gestire una frequentatissima palestra e gestire tre nipoti: “Il campo proprio non mi manca”.



Agli attrezzi della sua frequentatissima palestraFabrizio Bulletti, per tutti, è semplicemente il prof. Ha 67 anni ma ne dimostra 25 di meno: un po’ per deformazione professionale e un po’ per passione, ogni due giorni si fa un’ora di corsa a ritmo sostenuto, esercizi per gli addominali, le spalle e i dorsali. Nella palestra che gestisce dal 1990, ci sono tanti ragazzi molto meno in forma di lui. Il prof, se si parla di Arezzo, è un’istituzione. La tuta amaranto da preparatore atletico l’ha indossata per la prima volta nel lontano 1966 e l’ha restituita al magazziniere trent’anni dopo. Il presidente Graziani gli aveva proposto di occuparsi solo del recupero infortunati e lui, cortese ma fermo, rispose che non era proprio il caso. E scrisse la parola fine su una parentesi grandissima della sua vita. “Quando chiudi – mi ha spiegato il prof durante l’intervista – devi essere forte mentalmente, altrimenti non ce la faresti mai”.

Oggi Fabrizio Bulletti segue il suo popolo, vero e proprio, della sala pesi e dell’aerobica, della ginnastica che ti tiene in forma, ti fa perdere qualche chilo e ti presenta all’estate tirato a lucido, a patto di essere costante nell’allenamento. Ci sono quelli che vengono oggi e tornano dopo tre settimane, ma anche quelli che dentro la palestra ci passano cinque pomeriggi su sette e se potessero andrebbero pure il sabato e la domenica, quando la saracinesca resta abbassata. Un po’ come succedeva con i calciatori: il prof ha avuto a che fare con gente di tutte le risme, stacanovisti e scansafatiche, infaticabili corridori e incorreggibili fannulloni. In senso buono, ovviamente. Magari era gente che al pallone dava del tu, ma non bisognava parlare di scatti e ripetute sennò addio.

E’ stato talmente coinvolgente, totalizzante il rapporto di Fabrizio Bulletti con il calcio, che oggi fa il preparatore atletico anche suo figlio Francesco. Arezzo, poi Perugia, Genoa, Udinese e da qualche settimana Brescia. Bulletti junior ormai forma con Serse Cosmi e Mario Palazzi un trio affiatato che sta riscuotendo consensi professionali in serie.

Prof, a suo figlio Francesco quanti consigli dà?

“Nemmeno mezzo. Gli parlerei con l’esperienza di uno che ha fatto questo mestiere troppi anni fa, gli direi delle gran cavolate e basta”.

Possibile?

“Possibile sì. Ci sono differenze sostanziali con il lavoro dei miei tempi: prima contava molto l’intuito, oggi è tutto più scientifico. E poi Francesco è bravo, non ha bisogno di essere guidato”.

Il suo primo ricordo legato all’Arezzo qual è?

“Lo stadio Mancini dove mi portava mio padre Ubaldo, che era tifosissimo. Avrò avuto dieci anni, forse meno. Poi mi ricordo il distributore di benzina che gestivamo in via Spinello, lì davanti si ritrovavano gli sportivi a commentare i risultati”.

Lei ha giocato a calcio?

“Ho giocato ma ero scarso. Provai da ala destra senza grandi risultati. In prima squadra c’era Querini, ogni volta che mi incontrava mi diceva che il calcio non faceva per me”.

Metà anni ’50: dove abitava?

“In via Francesco Folli, nella zona del vecchio ospedale, in una casa che aveva tirato su mio nonno con le sue mani. Presi il diploma di ragioniere, poi nel ’61 mi iscrissi all’Isef a Firenze. Avevo una grande passione per la forma fisica, per la preparazione atletica, dopo il calcio avevo fatto lotta per tanti anni conla LibertasArezzoe la mia strada era quella. Non potevo sbagliare”.

Università senza contestazioni studentesche, però. Giusto?

“Quelle arrivarono più tardi. Io mi sono diplomato nel ’65, ho fatto prima. E comunque noi dell’Isef stavamo a Coverciano, eravamo un mondo a parte, con parametri rigidi da rispettare per andare avanti con gli esami”.

E il calcio?

“Mi piaceva da matti, così feci una scommessa con me stesso. Andai dal vicepresidente dell’Arezzo, Caneschi, e gli dissi: sono un insegnante di educazione fisica, vorrei fare il preparatore atletico. Mi affidarono quattro ragazzi della Primavera da seguire, poi entrai in pianta stabile nel settore giovanile, dove ad allenare c’era Tonino Duranti. Nel ’69 andai in prima squadra, allenatore era Omero Tognon. D’estate facemmo un ritiro di un mese a Pieve Santo Stefano”.

Saltando di palo in frasca, è vero che ha fatto parte del gruppo Sbandieratori?

“Verissimo, dal 1961 al 1978. Un’esperienza bellissima, siamo stati pure ai campionati del mondo di calcio in Argentina”.

Il tempo libero come lo passava?

“Ritrovo fisso dove una volta c’era il bar Giommoni e lunghe passeggiate su e giù per Corso Italia”.

E sua moglie Bianca quando l’ha conosciuta?

“Ci conoscevamo da sempre, eravamo vicini di casa. Però l’incontro galeotto ci fu alla sala da ballo Verdi, complice un mio amico che si era fidanzato con un’amica di lei. Un anno e mezzo e ci siamo sposati, dopo poco sono nati Annalisa e Francesco”.

La domenica era giorno consacrato al pallone, immagino. Sua moglie come reagiva?

“Nel modo giusto. Se accanto hai una donna intelligente, i problemi si risolvono e non si acuiscono”.

L’ultima gita domenicale fuori porta quando l’ha fatta?

“Mai fatta in quarant’anni”.

Lei è stato uno dei primi preparatori atletici a lavorare nel calcio professionistico. Quanta diffidenza c’era nei vostri confronti?

“Abbastanza: ero visto come un intruso, soprattutto dagli allenatori. Erano loro che avevano sempre curato la preparazione e volevano continuare a farlo. Infatti ogni tanto arrivava qualcuno che seguiva tutto da solo e io tornavo al settore giovanile. Coi giocatori invece fu diverso da subito, perché si accorgevano in campo dei vantaggi che nascevano da un lavoro più mirato”.

Foto ufficiale con l'Arezzo di RiccominiI presidenti?

“Io ho avuto la fortuna di avere presidenti intelligenti e lungimiranti. Penso a Golia, per esempio. Da questo punto di vista sono stato bene”.

Gli allenatori che l’hanno osteggiata chi sono?

“Nomi non ne faccio. Posso dire quelli con cui sono andato più d’accordo: Angelillo e Benvenuto”.

Quand’è che la figura del preparatore ha assunto una sua dimensione riconosciuta e accettata da tutti?

“Negli anni ’80. Il problema è che molti allenatori erano poveri culturalmente e la scarsa cultura rende egoisti e accentratori. Piano piano le cose sono cambiate e anchela Federazioneha capito che i preparatori atletici andavano tutelati e valorizzati professionalmente”.

Le è mai venuta la voglia di mollare tutto?

“No, assolutamente. Nel settore giovanile mi divertivo comunque, ho cresciuto ragazzi come Neri, Baldi, Della Martira, Graziani. Fui uno dei primi in Italia a portare i giocatori in sala pesi: lì per lì erano disorientati, poi diventò una piacevole abitudine”.

Come era impostato il lavoro, quali accorgimenti venivano seguiti?

“Parlo degli anni ’80, quando ci fu un salto di qualità tangibile nella preparazione delle squadre. La scuola olandese era predominante, quindi la parte atletica assorbiva il settanta per cento dell’allenamento e il resto era dedicato alla tecnica. Un lavoro massacrante, senza pallone, che con gli occhi di oggi giudico eccessivo anch’io”.

Di lei ho sempre sentito dire che era un sergente di ferro. Verità o bugia?

“Diciamo che facevo lavorare sodo”.

Chissà quante volte i giocatori l’hanno mandata al diavolo…

“I giocatori brontolano sempre, non si scappa. C’è chi patisce di più, chi di meno, ma di solito la reazione è standard. Quelli tecnici, generalmente, sono in difficoltà col lavoro atletico perché hanno un approccio mentale più faticoso”.

Mi dica il nome di uno che correva senza imprecare contro di lei.

“Farina, giocava con noi nel 1972. Bell’atleta”.

E invece uno che proprio non ce la faceva?

“Marco Macina, soffriva come un matto”.

Il rapporto più stretto con chi l’ha avuto?

“Con quelli che avevano subito degli infortuni e che quindi passavano periodi lunghi insieme a me per recuperare la condizione. Uno con cui si era creata un’amicizia profonda, che tra l’altro dura anche oggi, è Ugolotti, il grande Ugo gol”.

Con i presidenti, a parte Golia?

“Golia e Butali sono stati quelli che più mi hanno dimostrato fiducia, stima e affetto”.

Tra le centinaia di partite che ha vissuto, ce n’è una che le è rimasta stampata nella memoria più delle altre?

“La prima volta a San Siro contro il Milan, nel 1982. Perdemmo 2-1 ma giocammo meglio noi. E l’arbitro non ci dette un rigore negli ultimi minuti per un fallo clamoroso su Sartori”.

Quale partita cancellerebbe invece?

“Uh, tante. Cancellerei tutta la stagione che si chiuse col fallimento dell’Unione Sportiva. Fu una sofferenza dal primo giorno di ritiro fino al 17 aprile”.

Quel ritiro di Pergo è passato alla storia come uno dei più assurdi di sempre: afa, caldo, un inferno.

“Io ti dico che invece questa è una balla colossale, una castroneria messa in giro da chi non ha competenza per giudicare. Il problema non era la temperatura, era il valore dei giocatori. Andare a Pergo è come andare a Cascia: i ritiri servono per conoscere la squadra, per creare il gruppo, il resto sono storie. Puoi anche andare a fare la preparazione al freddo, poi torni a casa e trovi quaranta gradi. Il vantaggio dov’è?”.

In alta quota i giocatori si ossigenano.

“Macché, per fare ossigenare il sangue ci vorrebbe un mese, mica quindici giorni. E poi scusa: l’Inter si allena alla Pinetina, il Milan a Milanello. Lì d’estate non fa caldo?”.

Insieme a Maradona e al figlio Francesco nell'84Ok prof, ok. Per chiudere l’argomento: i ritiri infrasettimanali servono?

“Per me no, io li abolirei. I calciatori vanno lasciati con le famiglie e a livello nervoso ne traggono un beneficio maggiore”.

Suo figlio fa il preparatore. In cosa siete diversi?

“Francesco è più professionista, anche nel modo di pensare. Non professionale, professionista”.

C’è stato in questi anni un momento in cui si è sentito veramente orgoglioso di lui?

“A Barcellona, quando prima della partita di Champions l’ho visto lì, sul prato del Camp Nou, guidare il riscaldamento dell’Udinese. Mi sono commosso”.

Anche Francesco, come suo padre, la domenica a casa non c’è mai.

“Pure lui, come suo padre, ha sposato una donna intelligente”.

Anche suo genero Alessandro è nel mondo del calcio, fa il massofisioterapista all’Arezzo. Quando vi trovate a pranzo tutti insieme di cosa parlate?

“Di calcio no”.

Non ci credo.

“Giuro. Capisco le loro difficoltà per averle provate sulla mia pelle e so che meno se ne parla, meglio è”.

Lei è sempre tifoso amaranto?

“Accidenti se lo sono. Spero con tutto il cuore che arrivi la salvezza, possiamo ancora farcela”.

Chi le piace della squadra di quest’anno?

“Beh, Floro è decisamente di un’altra categoria”.

Conosce Francesco Bertini, il preparatore dell’Arezzo nonché giovane e aretino doc come suo figlio?

“Non lo conosco ma gli faccio un grande in bocca al lupo. A lui e a mister Sarri, sperando che riescano nell’impresa di restare in B”.

La provincia di Arezzo ha prodotto grandi professionalità nel settore. Non dimentichiamo Tognaccini, che adesso è al Milan.

“E’ stato mio allievo quando insegnavo all’Istituto professionale di San Giovanni Valdarno. Io non me lo ricordavo, fu lui che a San Siro, prima di un Milan-Perugia, prese da parte Francesco e gli chiese se era mio figlio. Mi mandò i saluti, un bel gesto”.

Oggi la preparazione atletica delle squadre è progredita: in campo ci sono più dinamismo, più velocità, anche più infortuni. E’ un calcio migliore o peggiore secondo lei?

“Migliore, anche dal punto di vista dello spettacolo. Prima i giocatori andavano a due all’ora, adesso è tutta un’altra storia, le partite sono più imprevedibili”.

Del doping cosa pensa?

“Finché sono stato dentro io, non ho mai visto un solo giocatore doparsi. Qualcuno non ci crederà ma è così”.

E oggi?

“Mah, con tutti i controlli che ci sono, chi si dopa sa che verrà scoperto. E’ matematico. Molti calciatori peccano di superficialità, questo sì, però non ci credo alla tesi del doping consapevole per migliorare le prestazioni”.

L’ultima domanda, prof, però deve dirmi la verità. Le manca il campo da calcio?

“Con la palestra, la famiglia e tre nipoti da seguire, rispondo di no. Proprio non mi manca”.

 

scritto da: Andrea Avato, 25/03/2007