Antonio Valentin Angelillo e Alberto Farsetti

Compie 80 anni l’ex amministratore delegato, vicepresidente e presidente dell’Unione Sportiva Arezzo. Nel 1990 uscì dalla dirigenza e tornò a fare il tifoso, come quando andava a vedere le partite al vecchio stadio a Campo di Marte. In questa intervista del 2009 ci parlò di Terziani e Bianchini, del fallimento e della rinascita, di Dell’Anno e Tovalieri, di Angelillo e Cucchi. Ma anche della sua città, di cui è sempre stato innamorato. Tanti auguri!

Alberto Farsetti è un uomo innamorato di Arezzo e dell’Arezzo. All’ingresso della Sao, l’azienda orafa che manda avanti da qualche decennio, campeggia una suggestiva gigantografia della città con le strade e le colline coperte dalla neve. In primo piano c’è lo stadio in versione pre restauro, con la tribuna inferiore e superiore e la vecchia curva sud. Farsetti ha l’amaranto nel cuore e non solo perché è stato dirigente dell’Unione Sportiva dal ’79 al ’90, ricoprendo le cariche di amministratore delegato, vicepresidente e anche presidente. La sua è proprio una fede, una passione che lo porta ogni domenica a salire i gradoni del Comunale per vedersi la partita dal vivo. Al suo fianco, da sempre, la moglie Maria Irma. Qualche centinaio di metri più in là, dentro la Minghelli, il figlio Stefano, che ormai è sposato e ha una bambina di poco più di un anno, Rebecca. Anche lei, è sicuro, a breve sarà contagiata dal virus amaranto, perché la tradizione di famiglia non può essere interrotta. Farsetti ha vissuto sulla sua pelle, in prima persona, l’epopea del calcio aretino negli anni ’80, ha visto dal di dentro l’ascesa economica della città e quella sportiva. Poi, cammin facendo, ne ha seguito anche il regresso, con il settore orafo (e non solo) che ha smesso di tirare come prima e la dirigenza dell’Arezzo, potente e solida come non era mai stata, che si è letteralmente sfaldata. “Terziani ce l’aveva con quelli che chiamava sciacalli – ricorda Farsetti. Gente che viveva di luce riflessa, che campava di pettegolezzi, che seminava zizzania. Eravamo un gruppo unito che piano piano, per colpa degli sciacalli, si frantumò”.

Anni ottanta, giusto?

“Era il 1984. Quell’anno avremmo potuto salire in serie A ma ci andò male. Non fu più come prima”.

Tant’è che Terziani mollò.

“Il timone passò a Nofri, poi venne Butali, poi Duranti. Poi toccò a me”.

Ma gli sciacalli chi erano?

“Lasciamo stare, è passato tanto tempo ma non ho voglia di parlarne”.

Lei è entrato nell’Arezzo nel ’79.

“E ci sono rimasto undici anni. Venni via insieme a Caldelli, a Fabbroni, quando la società passò a Mauro Bianchini. I conti erano a posto: crediti in Lega e parco giocatori coprivano abbondantemente le esposizioni”.

Di lì a poco l’Unione Sportiva fallì. Se l’aspettava?

“No, fu un trauma. Bianchini da solo non ce la fece a reggere il peso della gestione. L’Arezzo era in C1, incassava poco e le spese erano tante”.

17 aprile 1993. Se ripensa a quel giorno infausto, cosa le viene in mente?

“Ne ero già convinto allora, ma con il tempo ho rafforzato la mia idea: il fallimento dell’Arezzo servì per dare un esempio. Fu un’ingiustizia. Altre società, anche di serie A e con debiti maggiori, sono state salvate”.

Lei ha dedicato una vita all’Arezzo, da dirigente e da tifoso. Cosa le è rimasto nel cuore?

“Le prime stagioni dentro la società. Con Terziani, con Caldelli, con Angelillo c’era vera amicizia. Fu un periodo splendido, sia per i risultati conquistati sul campo che per i rapporti umani che ci legavano nella vita privata”.

Dietro la sua scrivania c’è una foto della curva sud con lo striscione Alberto resta con noi.

“Mi emoziono ogni volta che la riguardo. Gli attestati di stima che ho ricevuto quando sono venuto via dall’Arezzo sono stati tanti. E mi hanno fatto un piacere immenso”.

Lei è stato presidente dal marzo del 1989 fino al giugno del 1990. Duranti, il suo predecessore, mi disse una volta che sedersi su quella poltrona comporta uno stress molto forte. E’ così?

“E’ così. A me un grande aiuto me lo dava la passione, anzi la fede”.

La fede per l’Arezzo.

“Esatto. Vent’anni fa le aziende andavano meglio di oggi, la città era in espansione, c’era una ricchezza più diffusa. E investire parte degli utili nel calcio era un sacrificio che facevo volentieri”.

Quanti soldi le ha portato via il pallone?

“Non saprei. Ma ho dato, credimi”.

E poi?

“Più passava il tempo e più ci rendevamo conto che gestire una squadra in serie C era dura. Oggi non è cambiato niente da questo punto di vista: il pubblico è quello, gli incassi sono quelli. Ci vorrebbe ogni anno un ragazzo del settore giovanile che esplode e frutta denaro. Ma non è facile. Per Arezzo la C è stretta, però la B forse è troppo larga, mettiamola così”.

Si è mai pentito di aver fatto il presidente?

“Mai”.

Prima ha parlato di fede. Lei è anche adesso un appassionato vero.

“Lavoro tutta la settimana, pure il sabato. Il calcio mi piace, l’Arezzo è la squadra della mia città. Alla partita non rinuncerei per nulla al mondo. Io tifo solo l’Arezzo, la serie A la seguo con distacco”.

L’emozione più grande quando l’ha provata?

“La promozione in B con Angelillo è stata indimenticabile. Mi sono emozionato anche quando l’Arezzo ha vinto con Cosmi e con Somma. Però se devo proprio citare un episodio, allora dico la vittoria a Perugia”.

Gol di Facchini e Ugolotti.

“Organizzammo un treno per i tifosi, pagai di tasca mia. Vincemmo e ci salvammo, loro retrocessero. Fu una grande soddisfazione”.

Ma in famiglia non l’hanno mai rimproverata per questa sua passione così forte?

“E perché? Mio figlio è più tifoso di me. Mia moglie l’ho conosciuta al vecchio stadio Mancini, a Campo di Marte. Anche lei veniva a vedere la partita”.

Nell’84 l’Arezzo poteva andare in serie A, una categoria che non ha mai raggiunto. Perché?

“Angelillo un giorno mi disse: se andiamo in A, io mi dimetto. In serie A per l’Arezzo sarebbe impossibile salvarsi”.

Va beh, però sarebbe bello provare una volta.

“Per andare in serie A la società deve essere un orologio in cui ogni ingranaggio gira alla perfezione. Presidente, dirigenza, allenatore, giocatori, fino al magazziniere: se salta una rotella, salta tutto il meccanismo. Forse è per questo che l’Arezzo non ha mai fatto il salto”.

Voi nell’84 non eravate un ingranaggio perfetto?

“L’ho detto prima. Gli sciacalli…”.

Capito. E la cultura sportiva quanto influisce?

“Il giusto. Arezzo aveva cominciato a crescere sotto questo profilo. La retrocessione dell’88 è stata una mazzata, una vera sciagura sportiva”.

A chi è rimasto legato dei suoi tempi?

“A Narciso Terziani. A Neri, Zandonà, Butti. Ad Angelillo, ovviamente, anche se ormai ci sentiamo di rado”.

Sotto la sua gestione sono passati in amaranto Dell’Anno e Tovalieri, mica due qualsiasi.

“Dell’Anno, grande giocatore. Anche Tovalieri, ma il carattere lo tradiva spesso. Era il Cassano dell’epoca”.

Farsetti presidente tifoso, come Terziani, come anche Butali. Mancini appartiene a questa categoria?

“Non sono nella testa di Mancini, non saprei rispondere. Sinceramente non credo gliel’abbia ordinato il dottore di fare il presidente dell’Arezzo, quindi la passione ce l’avrà anche lui. In questo momento, però, immagino abbia altri pensieri per la testa”.

Cioè?

“Le sue aziende. Signori, il momento è duro per tutti. Il calcio viene dopo”.

Come giudica questi nove anni con Mancini presidente?

“Dal punto di vista economico ha fatto l’impossibile. E ha fatto tutto da solo. Ai tifosi, agli sportivi, vorrei ricordare che un presidente disposto a spendere non si trova a ogni semaforo”.

C’è chi dice che Mancini ama questa sua solitudine.

“Sotto certi aspetti fa bene. Un club di calcio con troppe teste è destinato a fallire. Penso anche alla mia esperienza: quando Terziani iniziò a fare il padre padrone, ottenemmo i risultati migliori. Semmai a Mancini mi sento di dare un consiglio”.

Quale?

“Un presidente deve avere una qualità più di tutte le altre: sapersi scegliere i collaboratori. Se ne prende di validi, le possibilità di vincere aumentano esponenzialmente, altrimenti è un problema”.

Lei lo conosce Mancini?

“Lo conosco, lo stimo anche se non posso dire che siamo amici. Io non frequento salotti, sto sempre in azienda, non vado mai in televisione”.

Già. Perché?

“Perché in televisione certe cose non si possono dire, non sarebbe corretto. E se poi mi fanno tornare in mente alcuni episodi, non saprei trattenermi”.

Ha mai rotto dei rapporti per colpa del calcio?

“Mi è capitato, anche se non sono un attaccabrighe”.

Con chi?

“Con un ex direttore sportivo dell’Arezzo”.

Cominciano a girare voci di presunte cordate interessate a rilevare Mancini nella gestione della società. Dobbiamo crederci o no?

“Fare il presidente stanca sia economicamente che psicologicamente. Mancini ha detto a chiare lettere che vorrebbe farsi da parte, io gli credo. Credo meno alle voci, obiettivamente”.

L’eterno dilemma è: meglio un presidente aretino o uno di fuori?

“L’ideale sarebbe un presidente aretino, con tanti soldi, tifoso vero e capace di creare uno staff valido. Utopia”.

Lei si terrebbe Mancini, vero?

“Io sì. Una volta con Terziani stavamo decidendo se esonerare Pierino Cucchi oppure no. A me Cucchi piaceva, avevo un ottimo rapporto con lui. Però lo spogliatoio non lo seguiva più e allora Terziani, di fronte alle mie perplessità, mi disse: un giocatore lo ritroviamo, un allenatore anche. E’ la dirigenza che va tenuta di conto. Valeva allora e vale anche oggi”.

Arezzo in questo momento ha la forza economica per esprimere un’alternativa a Piero Mancini?

“Per me no. La crisi è ovunque, Arezzo non fa eccezione”.

Parliamo d’attualità. L’esonero di Cari e poi quello di Ugolotti come li ha interpretati?

“Mancini è fatto così, è impulsivo. Io non voglio giudicarlo, dall’esterno le cose si sanno solo in parte e ci creiamo false verità. Quando ero presidente, il chiacchiericcio mi dava fastidio, non voglio commettere lo stesso errore”.

Ci crede ai play-off?

“Ma sì, ai play-off ci andiamo. La cosa che non riesco a spiegarmi è come mai la squadra abbia dei cali di rendimento così evidenti. Non trovo motivazioni logiche”.

Baclet le piace?

“Baclet e Matute sono i miei pupilli”.

Matute secondo qualcuno somiglia a Ruotolo.

“Sì, forse. Io direi che somiglia a Malisan, fa quantità e sa inserirsi in avanti”.

Cosa si aspetta dal futuro?

“Calcisticamente, mi aspetto la promozione. Sarebbe il risarcimento per la retrocessione del 2007. Ingiusta e amara”.

E dalla vita?

“Mi aspetto che la città ritorni agli splendori di una volta, che ritrovi quel benessere economico e sociale che c’era prima”.

Lei lavora da sempre. Non le viene mai voglia di fare il nonno?

“Sai cosa penso? Chi non lavora, invecchia prima. Per questo sono ancora qui”.

Nato nel 1972, giornalista professionista, ha lavorato con Dahlia, Infront, La7 e Sky. Scrive anche per Arezzo Notizie e Up Magazine, collabora con Teletruria dal 1993. E' il direttore di Amaranto Magazine