Parla il professionista che ha guidato il gruppo di lavoro formato da M28 Studio, Spsk Studio e Speri Spa: “Il tifoso non può essere solo uno spettatore, questo ci ha guidato nella stesura del progetto. Una cinquantina di riunioni per definire la riqualificazione di un impianto che dovrà essere sempre aperto e accogliere, oltre al calcio, anche cultura, scuola, eventi, coworking. Manzo non ha mai tentennato, a marzo vuole le ruspe in azione”
Il progetto che sta per arrivare all’approvazione definitiva è destinato a cambiare il rapporto degli aretini con lo stadio. E in calce c’è la firma di Carlo Antonio Fayer, 52 anni, architetto di Roma, cuore giallorosso e appassionato di calcio. Proprio quest’amore viscerale per il pallone ha rappresentato la stella cometa di un percorso incentrato non solo sugli aspetti tecnici e burocratici ma anche, soprattutto, su quelli emozionali.
“Il problema oggi non è la modernità architettonica ma la sterilizzazione del sentimento – aveva scritto Fayer tempo fa nel suo blog sull’Huffington Post. L’ideologia dei nuovi stadi è diventata una narrazione che adora l’efficienza e il vetro temprato, ma a volte dimentica l’entusiasmo e l’anima di cui è fatto il tifo. Un antidoto c’è ed è più semplice (e rivoluzionario) di quanto sembri: coinvolgere i tifosi nella progettazione. Non consultarli. Non raccogliere pareri. Ma costruire insieme: curve, emozioni, percorsi, acustica, memoria. Fare dello stadio una creatura collettiva, non un prodotto da vendere a clienti ben profilati. Questo perché bisogna avere ben chiaro in mente che il tifoso non è solo uno spettatore. È regista della scena emotiva che è il rito della partita allo stadio: ogni curva è un frammento di cultura urbana. Sarebbe miope pensare che questi soggetti possano essere esclusi dai tavoli di progettazione”.
Architetto, siamo a pochi passi dal semaforo verde per un progetto mastodontico. Appena un anno fa, quando è cominciato l’iter burocratico, ci avrebbe sperato?
In effetti si tratta di una celerità anomala per l’Italia. Abbiamo remato tutti nella stessa direzione: tecnici, società sportiva, amministrazione comunale. Raccogliamo i frutti di un lavoro complesso ma lineare, con quasi cinquanta riunioni nei mesi scorsi. Il Comune ha recepito alcune nostre osservazioni, noi abbiamo integrato il progetto con le osservazioni del Comune.

Ci sono stati ostacoli lungo il cammino, magari con il rischio che saltasse il tavolo?
Questo rischio non lo abbiamo mai corso, anche se temi spinosi sono venuti a galla, com’era naturale che fosse. Penso ai parcheggi, all’area verde intorno allo stadio, al piano economico e finanziario, alla convenzione finale che deve ancora essere limata negli ultimi dettagli e che è stata revisionata almeno una quindicina di volte. Di base però ho sempre riscontrato una grande unità d’intenti e questo sarà il primo impianto in Italia riqualificato con la nuova legge stadi.
A marzo partono i lavori: possiamo garantirlo al 100%?
Mettiamola così: stiamo scalando l’Everest e siamo arrivati al campo base, che è già un risultato eclatante. Mancano gli ultimi metri per conquistare la vetta e io, da buon tecnico, mantengo una residua dose di cautela. Quando l’area di cantiere verrà recintata, allora mi concederò il privilegio di provare una grandissima emozione.
Dal punto di vista personale e professionale, cosa significa questo progetto per lei?
Arezzo è diventata la mia seconda città, quando sono qui mi sento a casa. Seguo la squadra, faccio il tifo, mi piace vivere il centro storico. E poi ho avuto un riscontro continuo sul progetto stadio, tanta gente mi ferma per chiedere informazioni, congratularsi, dare suggerimenti. È molto bello, appagante e gratificante.
A chi non ha seguito tutta la storia e si domandasse come sarà il nuovo stadio, cosa risponderebbe?
Abbiamo immaginato uno stadio che non chiuda mai. Che accolga, oltre al calcio, anche cultura, scuola, eventi, coworking. Una piazza moderna, coperta, sostenibile. Non si tratta solo di un impianto sportivo ma di un pezzo di città da restituire alla collettività. Uno spazio pensato per chi ama il pallone ma anche per chi ha semplicemente bisogno di un luogo da abitare. Aperto tutto il giorno, tutti i giorni, tutto l’anno, 365 giorni l’anno.
Il fatto che lei sia un tifoso di calcio, si è rivelato un aiuto per la realizzazione del progetto?
Assolutamente sì. Nel gruppo di lavoro, formato da M28 Studio, Spsk Studio e Speri S.p.A, siamo tutti innamorati del calcio, del tifo sano e degli stadi come luoghi di cittadinanza sportiva e culturale, da vivere e frequentare anche quando non c’è la partita. Nella vita professionale di un architetto, basta un progetto di questo spessore per essere contenti. Io lo sono anche perché ho potuto collaborare con un team di circa cinquanta persone, che considero le migliori menti che conosco.
Il progetto prevede circa 40 milioni di investimento. Il presidente Guglielmo Manzo ha mai tentennato di fronte a certe cifre?
No, anzi, è sempre stato sicuro nell’andare avanti. Il proposito che lo ha portato fin qui è quello di dare una svolta alla società e a tutta la città, di lasciare un segno nel tempo. Considerate che soltanto per la redazione del progetto, per la stesura del Docfap e per le indagini agronomiche necessarie, ha dovuto investire circa un milione e mezzo di euro. Questo dà l’idea della sua determinazione.
Le ha detto qualcosa di particolare dopo il via libera della conferenza dei servizi dell’altro giorno?
Mi ha chiesto: quindi a marzo portiamo le ruspe? Gli ho risposto di sì.












