Tanti saluti ai Frati, ai Tiganj e a tutti quelli che l’Arezzo in questa categoria ce lo avrebbero tenuto volentieri per batterlo, schernirlo e/o darsi una ragione di vita sportiva. Un commiato ai campetti sintetici duri come il sasso, agli stadioli senza impianto di illuminazione, a quelli col trenino dietro la porta, ai pollai e alle tribune sui montarozzi di terra, ai cartelli pro Perugia e a quelli con il prefisso telefonico di Firenze, a chi ci faceva l’elenco dei nostri fallimenti perché così poteva evitare di parlare dei suoi

Addio serie D. Con tanti saluti ai Frati, ai Tiganj e a tutti quelli che l’Arezzo in questa categoria ce lo avrebbero tenuto volentieri per batterlo, schernirlo e/o darsi una ragione di vita sportiva. Domani a Poggibonsi si chiude un biennio duro, di pane e salame ingozzati di fretta, spesso senza neanche un quarto di vino d’accompagnamento. Un commiato ai campetti sintetici duri come il sasso, buoni al massimo per giocarci 9 contro 9, agli stadioli senza impianto di illuminazione, a quelli col trenino dietro la porta, ai pollai e alle tribune sui montarozzi di terra, ai cartelli pro Perugia e a quelli con il prefisso telefonico di Firenze, esibiti a mò di scherno in provincia d’Arezzo.

Nove campionati di serie D negli ultimi trent’anni lasciano il segno e le cicatrici ce le porteremo dietro per sempre. Come le righe storte sul terreno, arbitri improbabili, sconfitte sonanti in paesini lungo la superstrada, carneadi che ci hanno esultato in faccia per poi tornare nell’anonimato. In questa categoria che sembra fatta apposta per espiare qualche colpa passata, abbiamo vinto qualche volta e perso troppo spesso, regalando scampoli di gloria a chi nemmeno ci sperava di farci fuori e si era presentato con la rassegnazione della vittima predestinata. Ne abbiamo resuscitati così tanti che nemmeno ce li ricordiamo tutti. Così va la vita, così va il calcio. Se era una sorta di purificazione quella che dovevamo sorbirci, beh, ce la siamo guadagnata dalla punta dei capelli a quella dei piedi.

L’ultima stagione ci ha risarcito delle delusioni e anche delle umiliazioni rimediate in giro per il centro Italia in una lunga e avvilente via crucis, con rari periodi di entusiasmo e ben più lunghi momenti di depressione. Avevamo cominciato a sospettare che “non può piovere per sempre” e che “solo chi cade può risorgere” fossero modi di dire senza alcuna aderenza con la realtà. Per fortuna i fatti ci hanno smentito e restituito il bene più prezioso di tutti, anche nello sport: la speranza. In barba a chi ci faceva l’elenco dei nostri fallimenti perché così poteva evitare di parlare dei suoi.

A mai più rivederci serie D. Che la storia faccia il suo corso e ci porti lontano da qui. Non per sciovinismo ma perché, con tutto il rispetto, meritiamo di stare altrove.