Napoletano atipico, 45 anni, il nuovo allenatore dell’Arezzo ha fatto la gavetta, vinto titoli con le giovanili del Bologna e perso due volte la C con la Cavese, arrivando decimo in Lega Pro sia a Mantova che a Rimini. Duttile tatticamente, si è diplomato a Coverciano con una tesi su formazione, organizzazione e risultato sportivo. Arriva in amaranto per fare il salto di qualità: “Ho sempre inseguito sogni e ambizioni di alto profilo”
E’ un napoletano atipico Emanuele Troise, nuovo mister dell’Arezzo. Riservato, concentrato sul campo e sul lavoro, senza quell’esuberanza partenopea che ci si potrebbe aspettare da chi è nato a Montesanto, nel centro storico della metropoli. Classe ’79, ex difensore centrale (“una volta annullai Shevchenko a San Siro, è stata la partita più bella della mia carriera”), si sentiva allenatore fin da prima che appendesse le scarpe al chiodo, a 31 anni.
Troise ha fatto la gavetta, cominciando da vice di Pecchia a Latina per poi seguirlo a Napoli, sotto la gestione Benitez, con il ruolo di addetto alle relazioni tecniche sugli avversari. Da lì il ritorno a Bologna, dove era stato da calciatore, come collaboratore di Diego Lopez. Quindi la trafila nelle giovanili rossoblu: un anno di Allievi e tre di Primavera, con uno scudetto e un torneo di Viareggio in bacheca.
Misurato nei toni e negli atteggiamenti, parla poco e a voce bassa. Da ex calciatore, conosce le dinamiche di gruppo e in questi anni è quasi sempre riuscito a mettere in piedi un rapporto solido con le squadre che ha diretto, sapendo che dentro ogni spogliatoio c’è chi gioca ed è contento e chi gioca meno e mugugna. Il suo curriculum dimostra che non ha avuto paura a rimettersi in discussione: uscito dalle giovanili del Bologna, andò a Mantova in Lega Pro e finì al decimo posto (2-0 contro l’Arezzo al “Martelli”, 1-1 al Comunale), uscendo ai playoff contro il Cesena.

Ma scelse di non restare e aspettò l’autunno per accasarsi in D alla Cavese. Due stagioni belle e amare in egual misura: gol a raffica, gioco piacevole eppure due delusioni. Il primo anno la Gelbison gli finì avanti di un punto, il secondo si fece rimontare dal Brindisi quando sembrava avere la promozione in tasca e poi perse lo spareggio in campo neutro. “Bravo ma gli manca qualcosa per fare il salto di qualità” scrivevano tifosi e cronisti a Cava.
Lui salutò a modo suo: “E’ andata così, anche se è difficile da accettare. E’ andata così e il rammarico ce l’ho dentro, facendone tesoro. Non mi resta che portarmi dietro questo importante bagaglio, affrontando questo periodo di attesa allenando una competenza fondamentale per un allenatore: la resilienza, per poter scrivere una nuova pagina del mio futuro”.
La resilienza. Concetto non banale che ad Arezzo trovò un grande interprete in Massimo Pavanel e nella sua battaglia totale. Un precedente beneaugurante per un tecnico che a Rimini, quest’anno, è subentrato all’ottava giornata, risollevando la squadra fino a un altro decimo posto, eliminando il Gubbio al primo turno playoff e salutando senza perdere con il Perugia. La rosa era un po’ a macchia di leopardo, costruita in più mandate a causa del cambio di proprietà avvenuto in estate: scoperta in alcuni ruoli, competitiva in altri. Dietro mancavano terzini veri, davanti c’erano Morra, Cernigoi, Ubaldi, Lamesta e Iacoponi e questi non erano male.
Troise debuttò prendendo un’imbarcata a Pontedera, poi mise insieme 12 risultati utili consecutivi, scalando la classifica. Nel girone di ritorno ha rallentato due volte: un punto in quattro giornate tra gennaio e febbraio, tre sconfitte di fila a marzo. Ha chiuso l’annata vincendo tutte le ultime quattro in casa e perdendo tutte le ultime cinque fuori. Ha comunque fatto un buon lavoro e lui, l’ha confessato pubblicamente, si aspettava la conferma. La società invece non gli ha rinnovato il contratto, puntando su Buscè e lasciando intendere che dalla squadra si aspettava un salto di qualità che non è arrivato. Proprio come dicevano a Cava. Perché alla fine, nel calcio, nessuno si accontenta e pretende sempre di più.
Lui, di nuovo, si è congedato con rara eleganza: “Ho sempre inseguito sogni e ambizioni di alto profilo. Dopo questa esperienza sono ancora più determinato. Saluto Rimini con la fierezza di aver dato il massimo. È un’altra parentesi di un viaggio partito da Mantova, continuato per due anni a Cava dei Tirreni e che riparte da domani. Riparte orgoglioso e ricco di valori”.
433 il modulo utilizzato più di frequente, anche se Troise non è un integralista. Ha giocato con il rombo, con i tre rifinitori dietro la punta, con la difesa a tre quando è stato necessario. Ama tenere la palla a terra ma non ha un sistema di gioco da cui non si deve derogare: dipende dai calciatori, dalle caratteristiche, a volte anche dagli avversari.
Nel 2020 si è diplomato a Coverciano, insieme a Caserta e Pirlo, Thiago Motta e Muzzi, Mirko Conte e Italiano, con la tesi sui tre obiettivi di un allenatore: formazione (migliorare il giocatore), organizzazione (stile e identità di un collettivo), risultato sportivo (da cui inevitabilmente tutto dipende). Ad Arezzo arriva su una panchina storicamente bollente, tant’è che il suo predecessore Indiani e Cosmi sono gli unici ad aver resistito per un biennio completo negli ultimi trent’anni.
L’obiettivo di Troise e dell’Arezzo, a ben vedere, è comune: fare il salto di qualità. Serviranno idee, una squadra competitiva, un po’ di fortuna, una gestione saggia nei momenti difficili. E resilienza. In bocca al lupo al 96° allenatore della storia amaranto!