Un infortunio alla spalla ha messo fuori causa il difensore del Legnago, aretino doc e cresciuto nelle giovanili fino all’esordio in serie C: “Venerdì sarà una partita tirata, tutte e due le squadre hanno bisogno di punti. I miei ricordi? L’esordio a Cava dei Tirreni con rissa finale, quella volta che con i Giovanissimi temevano fossi morto in campo, la rovesciata nei playoff a Viterbo. Nel 2019 fui spinto a cambiare aria, le persone che gestivano la società in quel periodo si rivelarono profondamente diverse da come erano state prima. Tornare? Ci ho provato e non ho perso le speranze”
Il 21 ottobre 2020 tornò da avversario con il Padova e mister Mandorlini lo tenne in panchina per novanta minuti. Stavolta avrebbe giocato di sicuro ma domenica scorsa è caduto rovinosamente durante la partita contro la Vis Pesaro e si è fatto male: distacco della clavicola dall’acromion, dolore alla spalla, tre settimane di stop. Carlo Pelagatti, aretino, 35 anni portati con disinvoltura, l’atmosfera del suo stadio e della sua gente dovrà viverla dalla tribuna.
Incazzato?
Sì. Ci tenevo molto a questa partita, per mille motivi.
Voglia di rivalsa o altro?
Non certo nei confronti della gente. Però nell’estate del 2019 fui spinto a cambiare aria, le persone che gestivano la società in quel periodo si rivelarono profondamente diverse da come erano state prima. Tante promesse che mi avevano fatto crollarono all’improvviso. Ero anche in un periodo particolare, stava per nascere mio figlio. Quell’epilogo fu doloroso e lo è anche oggi se ci ripenso.
Non sarai in campo venerdì. Ma se ci fossi stato, quale accoglienza ti saresti aspettato?
Buona. Sono sempre stato un tifoso, lo sono ancora, e con alcuni ragazzi della curva ho parlato spesso di ciò che accadde intorno alla mia partenza. Lì per lì fu una brutta sorpresa per tutti, è normale, però poi le dinamiche si sono chiarite.
Con il senno di poi, hai qualche rimpianto?
No, perché non mi fidavo più di chi c’era e non avremmo potuto continuare come se nulla fosse successo. I rimpianti ce l’ho per la semifinale playoff: con un pizzico di fortuna in più, chissà come sarebbe andata a finire. Il Pisa comunque aveva una rosa più ampia, più esperta della nostra e infatti salì in B. Noi facemmo una grande annata, personalmente la ritengo la più bella della mia carriera: un’emozione lunga dieci mesi con la ciliegina del gol in rovesciata a Viterbo.
Grande serata quella.
Paolo Antonio Toci, l’artista che ha disegnato anche il bozzetto della lancia d’oro dedicata al centenario dell’Arezzo, ha dipinto su tela l’immagine di quel gol e me l’ha regalata. Ce l’ho incorniciata a casa.
Si è parlato spesso di un tuo possibile ritorno in amaranto. C’è mai stata la possibilità concreta o erano solo chiacchiere?
Un paio di volte siamo stati vicini, poi non se n’è fatto niente. Io ci ho provato in più di una circostanza, diciamo che dall’altra parte non c’era la stessa convinzione. A Legnago comunque sto bene, questo devo dirlo: società modello, organizzata, seria.
Sei uno dei pochi aretini che è riuscito a fare il salto dalle giovanili alla prima squadra nei professionisti. Quali flash ti tornano in mente?
L’esordio in C a Cava dei Tirreni, avevo appena compiuto vent’anni. Finì 2-2, clima caldissimo, mentre tornavamo negli spogliatoi aggredirono mister Cari, venne fuori un parapiglia clamoroso. Grande squadra quella: Chianese, Martinetti, Baclet, Croce, Bondi. Poi l’infortunio a Santa Croce sull’Arno. Cuoiopelli-Arezzo nel campionato giovanissimi, testata con un avversario. Trauma cranico e arresto cardiaco, mi rianimarono sul campo ma ci misi diverso tempo a riprendermi. Qualcuno telefonò a mia mamma e le disse che ero morto. Una giornata assurda. Mi ricordo anche quando il presidente Mancini decise di non iscrivere l’Arezzo al campionato, nell’estate 2010. Da lì per me è cominciata un’altra storia, ho girovagato per l’Italia e vestito maglie importanti. Senza quel fallimento, sarei rimasto in amaranto.
Ci sono amicizie costruite nel settore giovanile che ti porti dietro ancora oggi?
Mi sento spesso con Elio Calderini, un talento che poteva fare molto di più in carriera. Sono rimasto in contatto con Alberto Bianconi, attaccante che ora gioca a Torrita. Poi con Gennaro Nunziata, un ragazzo di Napoli che praticamente ha abitato a casa mia due anni. Adesso gestisce un B&B ad Agropoli. Tra gli allenatori cito Rubinacci, è quello che mi ha formato e insegnato di più. Era spigoloso ma preparatissimo, oggi fa il vice di Grosso, l’ho incrociato diverse volte e ci siamo salutati con affetto.
L’Arezzo attuale come ti sembra?
Forte nonostante le ultime due sconfitte. Con Guccione ho giocato insieme a Bassano, con Coccia a Carrara, con Settembrini a Cittadella e Padova. Il capitano è un grande.
Lo chiamerai?
Prima della partita no. Fossi stato in campo, ci saremmo menati novanta minuti. Abbiamo due caratteri simili, Andrea lo sa. Però lo abbraccerò volentieri dopo.
Nemmeno il tuo Legnago se la sta passando bene.
Purtroppo no, siamo partiti con tre sconfitte che non avremmo meritato. Ci ha girato tutto storto, compresi gli episodi. Abbiamo diverse assenze, i nuovi devono ancora integrarsi a fondo, ci serve una scintilla per ripartire. Venerdì mi aspetto una partita tirata perché tutte e due le squadre hanno necessità di fare punti.
Sei ancora un appassionato di Giostra o la distanza ti ha fatto perdere calore?
Sono appassionatissimo. Il 12 ottobre, se il calendario delle partite me lo consente, verrò alla cena della vittoria di Sant’Andrea.
Hai già pensato a come chiudere la tua carriera da calciatore?
Sinceramente no. Dal punto di vista fisico mi sento benissimo e, a parte questo infortunio alla spalla, avevo cominciato alla grande, facendo tutta la preparazione a ritmi alti. Mi piacerebbe un giorno tornare ad Arezzo in condizioni ancora buone, lo confesso. Ma il futuro non lo posso prevedere.