l'esultanza davanti alla sud dopo il gol in rovesciata al Campobasso

Domenico Neri compie oggi 70 anni. Secondo giocatore di sempre per presenze in amaranto, è stato capitano e simbolo della squadra che sognò la promozione in serie A. Gli facciamo gli auguri con questa vecchia intervista in cui ci aveva raccontato il suo calcio

Tanti auguri a Domenico Neri! Classe ’52, è stato un giocatore simbolo per l’Arezzo e ne ha indossato la fascia di capitano. Con 253 partite in amaranto è il secondo per presenze nella storia del club, dietro soltanto a Stefano Butti e davanti ad Andrea Mangoni, compagni di squadra in un periodo d’oro in cui la città arrivò a sognare la serie A. Suo il memorabile gol in rovesciata, segnato al Campobasso il 9 giugno 1985 poco dopo aver fallito un calcio di rigore davanti alla sud, che risultò decisivo per la salvezza. Oggi è vicepresidente del Museo Amaranto. Per celebrare i 70 anni di Menchino, ripubblichiamo alcuni stralci dell’intervista rilasciata ad Amaranto Magazine nell’ottobre 2006.

Possiamo dire che lei è stato uno dei pochi aretini profeti in patria?

“Di sicuro la gente mi ha sempre voluto bene, forse perché si capiva che per me la maglia aveva un valore speciale”.

Dove ha trascorso la sua infanzia?

“A Sant’Andrea a Pigli fino a 6 anni, poi ci siamo trasferiti in città, al Gattolino”.

Quand’è che ha cominciato a tirare calci al pallone?

“Per la strada ho iniziato prestissimo. A 10 anni sono andato in una squadretta che si chiamava Mazzola, allenata da Tonino Duranti. Qualche stagione dopo rilevò tutto l’Arezzo e mi trovai in amaranto”.

I suoi genitori erano contenti?

“Il calcio a casa mia non interessava a nessuno, però mi lasciarono fare. Chi mi seguiva sempre era mio fratello Giuseppe, più vecchio di 12 anni. Lui e Carla, la sorella più grande, mi coccolavano e mi viziavano”.

Con lo studio come andavano le cose?

“Insomma, calcio e scuola non si conciliavano proprio alla perfezione. Però terminai i tre anni di segretari d’azienda”.

Dov’è che facevate gli allenamenti?

“Con la Mazzola al vecchio Mancini, a Campo di Marte. Con l’Arezzo, invece, ci allenavamo al Comunale quando andava bene. Altrimenti ci portavano in qualche campetto cittadino”.

Come ci arrivava?

“Sempre in bicicletta, estate o inverno non faceva differenza”.

l’Arezzo 1973/74, Neri è il secondo accosciato da sinistra

Se la ricorda la città sul finire degli anni ’60?

“Completamente diversa, senza i locali che ci sono oggi. E anche se ci fossero stati, non li avrei conosciuti. Uscivo di rado io, il tempo lo passavo tra i libri e il pallone”.

In che ruolo la facevano giocare da ragazzino?

“Mezz’ala da subito. In vita mia non ho mai cambiato posizione in campo”.

Quali allenatori l’hanno formata nel settore giovanile?

“Tonino Duranti e il suo assistente Silvano, poi Castaldi in Primavera”.

Sono in tanti a sostenere che la Primavera dove ha giocato lei è stata la più forte della storia. E’ d’accordo?

“Se sia stata la più forte di tutte, non lo so. Certo di giocatori bravi ce n’erano, da Graziani a Baldi, da Martini a Del Pasqua, a Giulianini. Ogni volta venivano tre o quattromila persone a vedere le nostre partite”.

I settori giovanili erano più forti di quelli di adesso?

“Probabilmente sì. Senza contare che arrivare in prima squadra era difficilissimo: le rose erano corte, tra titolari e riserve in campo andavano in 13 e quasi mai uno di questi era un giovane della Primavera”.

Se lo ricorda il suo debutto con l’Arezzo in serie B?

“Giugno ’72, Arezzo-Sorrento 1-2. Segnai con un tiro da fuori area ma perdemmo in casa. Quel gol, nonostante la sconfitta, non lo scorderò mai. Oltretutto fui uno dei primi ad esordire dopo Graziani. Giocare con la squadra della mia città era un sogno che si avverava”.

C’è un compagno di squadra con cui l’amicizia è rimasta negli anni?

“Andrea Baldi. Abbiamo fatto insieme tutta la trafila delle giovanili e oggi sono amiche anche le nostre famiglie. Ma di nomi potrei farne anche altri”.

Per esempio?

“Il massaggiatore Nanni Occhini, il segretario Remo Maccarini. Ci univano splendidi ricordi. E poi Andrea Mangoni, Beppe Zandonà. Per fortuna ho sempre avuto un carattere socievole, mi ha aiutato molto dentro lo spogliatoio”.

Quando ha conosciuto sua moglie Daniela?

“Prestissimo. Ci siamo fidanzati quando io avevo 19 anni e lei 14. Fu un vero e proprio colpo di fulmine”.

grande tecnica e carattere di fuoco, Neri è stato un giocatore che sapeva farsi rispettare

Dove successe?

“A Città di Castello, in discoteca”.

Come in discoteca? Prima ha detto che non frequentava locali…

“Fu un caso, giuro. Andai coi miei amici del Gattolino a ballare per Capodanno e scoccò la scintilla. Oggi abbiamo due figlie: Simona e Francesca”.

Sua moglie era gelosa del tempo che vi portava via il calcio?

“No, assolutamente. Mi ha sempre seguito e appoggiato, è stata la mia prima tifosa”.

Si ricorda il primo stipendio?

“Ventimila lire dall’Arezzo nel ’71. Diciamo che non era nemmeno uno stipendio, quanto un rimborso spese che faceva avere il povero Zampolin a noi ragazzi”.

Ci pensa mai a tutte le emozioni vissute grazie allo sport?

“Ci penso molto spesso. La cosa più bella è giocare, hai pochi problemi, pochi pensieri. Da allenatore aumentano le preoccupazioni, la partita quasi non te la godi più”.

Dopo l’esordio con l’Arezzo nel ’72, la mandarono a Empoli, poi due anni a Massa, tre a Reggio Emilia e sei mesi a Como. Perché?

“All’Empoli mi dettero in prestito: ci rimasi male, io da Arezzo non sarei mai partito. Tuttavia feci un buon campionato e a fine stagione il presidente Montaini mi cedette definitivamente alla Massese. Reggio Emilia la conservo nel cuore: bella città, gente ospitale. Ad Arezzo tornai nel ’79, grazie a Giuliano Sili che mi portò via da Como. Ero in B, accettai di scendere in C soltanto perché c’era di mezzo l’Arezzo, dove rimasi fino al 1987”.

In quegli anni conobbe fior di allenatori, giusto?

“A Empoli c’era Ulivieri: giovane ma già allora troppo perfezionista. Mi stava addosso. A Massa ho avuto prima Orrico con la sua gabbia e poi Vitali, a Reggio Emilia Caciagli e Mammi, a Como Pippo Marchioro. Il più preparato di tutti, comunque, era Mauro Benvenuto”.

Davvero?

“Tecnicamente sì. Angelillo invece era un volpone, spesso vinceva le partite grazie ai cambi azzeccati. Sia lui che Benvenuto avrebbero potuto fare carriera, ma li ha frenati il carattere un po’ fuori dagli schemi”.

Riccomini com’era?

“Abilissimo nel gestire lo spogliatoio, che poi è il compito più difficile per un allenatore. Nel calcio moderno, con le rose di 25 giocatori, è ancora peggio, ma pure allora gli ostacoli non mancavano. Per un calciatore, l’allenatore bravo è quello che ti fa giocare. Se ti tiene fuori, diventa un nemico. L’ho capito quando mi sono seduto su una panchina anch’io”.

C’è qualche aneddoto particolare sui rapporti che ha avuto con gli allenatori?

“Posso raccontare la storiella che ormai conoscono tutti, quella delle noci di Angelillo”.

Noci che erano un amuleto.

“Angelillo era molto scaramantico, si teneva sempre due noci nella tasca del cappotto perché era convinto che portassero fortuna. Un sabato, mentre eravamo in viaggio verso Taranto, le trovai sul pullman. Ignorando tutta la situazione, me le mangiai. Il giorno dopo, quando il mister si accorse che le noci erano sparite, cominciò a cercarle e Zanin gli disse che le avevo mangiate io. Angelillo se la prese a morte. A Taranto pareggiammo e lui dette la colpa a me. Erano 15 anni che se le teneva in tasca”.

A chi non l’ha mai vista giocare, direbbe che era una mezz’ala, un trequartista, una seconda punta o qualcos’altro?

“Un centravanti arretrato, la mia posizione ideale era dietro due punte, nel ruolo che richiede più estro e che tanto fa discutere. Questi giocatori sono la croce e la delizia degli allenatori, che non sanno mai come impiegarli. Una punta e un trequartista è poco, due punte e un trequartista è troppo”.

Lei però è sempre stato amato, sia dalla stampa che dai tifosi.

“E’ vero. Forse mi ha aiutato il fatto di essere aretino”.

Sfatando un altro luogo comune.

“Io davo sempre il massimo, giocare in casa era una motivazione molto forte che i giornalisti e il pubblico coglievano al volo”.

Il suo colpo migliore quale era?

“Ero furbo, o meglio, avevo quella malizia che agli aretini piaceva e che faceva arrabbiare gli avversari. Cadevo spesso, ma non ero un simulatore. Solo che qualcuno se la prendeva, tipo Borgo della Pistoiese. Mi faceva la guerra, mi aspettava per un anno intero”.

Il compagno più forte con cui ha giocato?

“Tovalieri e Dell’Anno”.

la festa per il 40esimo anniversario della promozione in B dell’82

Non posso non chiederle del gol in rovesciata al Campobasso. Prima il rigore sbagliato, poi quella prodezza che valse la vittoria e la permanenza in B. Mi racconta quei momenti?

“Il rigorista era Tovalieri, ma ne aveva già sbagliati un paio quell’anno. Quando l’arbitro ci dette il penalty, ci fu il fuggi fuggi: nessuno voleva tirare. Pinella Rossi mi guardò e disse: battilo te. Andai sul dischetto con la convinzione che l’avrei sbagliato, il pallone mi sembrava pesante cento chili. Calciai alla destra del portiere e lui lo parò. Lì cominciò il minuto e mezzo più lungo della mia vita, ero distrutto. Quell’errore poteva significare la retrocessione, purtroppo”.

Un giocatore che ha appena fallito un rigore, come fa a pensare a una rovesciata in quella maniera?

“Era destino. Stavo per essere sostituito, però la palla non andò fuori e l’azione proseguì fino al cross di Mangoni”.

Rovesciata e gol.

“Non lo so come ho fatto. So solo che fu una gioia tremenda, una liberazione. Ciappi, il portiere del Campobasso, mi strinse la mano. L’ho anche incontrato un paio di volte, negli anni successivi, e mi ha sempre detto che prendere gol belli in quel modo era un piacere”.

Ha rimpianti per non essere arrivato a livelli più alti?

“No. La serie A l’ho rifiutata un paio di volte pur di restare in amaranto. Mi volevano il Cesena e il Genoa, ma Terziani diceva che dopo aver appeso le scarpe al chiodo mi avrebbe fatto fare il dirigente. Avevo fiducia in lui, tanto che firmavo sempre il contratto in bianco. Poi, quando ho smesso, lui ha venduto la società e addio posto da dirigente. E’ stato sempre il mio presidente, anche se mi ha fatto guadagnare meno del dovuto. A lui e Giuliano Sili devo molto”.

Domenico Neri allenatore com’è stato?

“Ad Arezzo ho fatto un paio di stagioni buone. L’anno che partimmo forte, portando tremila tifosi a Ferrara contro la Spal, non avevamo società. Bianchini era troppo solo. L’anno dopo arrivò Nucifora, peggio che andar di notte: aveva convinto il povero Dall’Avo che la squadra era da serie B. Fui esonerato, crollò tutto e ad aprile del ’93 l’Arezzo fallì. Ci riprovai a Massa l’anno dopo, un’esperienza positiva fino a marzo”.

Troppo stress in panchina?

“Da giocatore pensi a te stesso e basta. Quando alleni devi combattere con la squadra, coi dirigenti, col magazziniere, con la stampa. E sei troppo legato al risultato. Infatti dopo Massa chiusi col calcio, non avevo voglia di trasferirmi ogni anno in un posto diverso, di stare lontano dalla famiglia”.

Le manca il calcio vissuto da dentro?

“Mi manca, ma io non ho il carattere né per fare l’allenatore né per fare il dirigente. Troppi compromessi”.

Ci sarà mai un altro come Neri nella storia dell’Arezzo?

“Un altro aretino apprezzato dalla gente? Spero di sì, è una soddisfazione enorme, un orgoglio che non ha paragoni”.

Nato nel 1972, giornalista professionista, ha lavorato con Dahlia, Infront, La7 e Sky. Scrive anche per Arezzo Notizie e Up Magazine, collabora con Teletruria dal 1993. E' il direttore di Amaranto Magazine