Non c’ero mai stato a Perugia. Stavolta sono partito con amici appassionati di amaranto come me, tra speranze e tensione che crescevano a braccetto a ogni chilometro percorso. Poi le pattuglie a Madonna Alta, gli agenti in tenuta antisommossa, i controlli ai tornelli, una birra propiziatoria e l’odore acre dei fumogeni. La partita è andata male ma il bello del calcio è anche solo mandare a quel paese un rivale storico un minuto dopo averlo applaudito per uno striscione
Venerdì scorso, finalmente, Perugia. La Minghelli non tornava al Curi da tredici anni… Io, e vi svelerò un segreto di cui mi vergogno non poco, non ci ero mai stato. Venerdì scorso, giuro, è stata la mia prima volta. Non andai in B nel 2005 perché mio padre mi portava a vedere l’Arezzo solo in casa. Non andai neanche negli anni di serie C perché forse non avevo nessuno con cui andare o chissà per quali altri motivi. Non andai neppure in D dopo la ripartenza con Massetti perché giocavo, si fa per dire, in terza categoria e la domenica si giocava, si rifà per dire, anche noi. Poi la storia recente la conosciamo tutti anche troppo bene: nel 2020/21 c’era di mezzo il Covid e gli stadi a porte chiuse e infine, la scorsa stagione, ci hanno pensato le solite assurde restrizioni a lasciare deserto il settore ospiti in Pian di Massiano nonostante, appunto, non ci fossero precedenti con tifosi al seguito dal lontano 2011.
Non che quest’anno non ci fossero limitazioni di sorta, intendiamoci, ma grazie alle battaglie della Minghelli e di Orgoglio Amaranto qualche paletto è stato tolto (pensiamo all’inconcepibile obbligo di viaggiare in pullman), poi buona parte della Sud ha deciso di sottoscrivere la tessera ed eccoci qua, pronti finalmente a partire, dopo tanto tempo o per la prima volta, in direzione Curi. In queste poche righe non vi parlerò della partita, della sconfitta, dell’amarezza nella via del ritorno, ma di altro. Tipo dell’attesa di un’occasione simile che covavo da anni. O del breve viaggio in macchina con amici appassionati di amaranto come me, tra speranze e tensione che crescevano a braccetto a ogni chilometro percorso.

Una cosa che ci ha sorpreso all’arrivo è stata l’accoglienza all’uscita di Madonna Alta: una pattuglia a una prima rotonda che ci dice che avremmo trovato un’altra pattuglia a una seconda rotonda che a sua volta ci dice che avremmo trovato un’altra pattuglia, “che al mercato mio padre comprò”, poche centinaia di metri più avanti. Quest’ultima ci fa accostare e i poliziotti ci dicono di aspettare qualche minuto l’arrivo di qualche altra macchina: ci avrebbero scortato direttamente dentro il parcheggio prendendo in contromano un paio di strade. «Manco al G8», pensavo tra me e me. Una volta parcheggiato, mangiamo e ci beviamo una birretta propiziatoria. Nel frattempo arrivano i pullman e qui inizia l’odissea per entrare nel settore. Accesso bloccato da agenti in tenuta antisommossa che facevano passare tre-quattro persone alla volta controllando biglietto e tessera del tifoso, poco importa se senza quella non avresti potuto neanche farlo, il biglietto. Dopo pochi minuti siamo tutti stipati verso l’ingresso a imbuto, mentre gli agenti ci intimano di non spingere e ci ributtano indietro. Non manca molto al fischio d’inizio e la gente legittimamente si spazientisce.
Poco in più in là, lo vedremo una volta riusciti a passare la cortina di ferro, c’è un ampio piazzale completamente vuoto davanti ai tornelli, dove ci accolgono per nome una volta passato il biglietto nel lettore. Un inno ai paradossi della gestione dell’ordine pubblico, in pratica. Tutto comunque fila liscio (chissà che si aspettavano) e la partita comincia. Non tornerò sul risultato o sulla prestazione o sulla rabbia al triplice fischio. Mi porterò solo dietro le reciproche offese, gli sfottò, il duello a distanza tra la curva di casa e una Minghelli ispirata e infuocata, in tutti i sensi. L’odore acre del fumogeno a pochi passi da me e gli applausi per ricordare chi da una trasferta non è tornato mai più a casa o chi se n’è andato lasciando una curva che era diventata una seconda casa. E allora alla fine, magari a freddo dopo diversi giorni, pensi che c’è molto di peggio anche di una sconfitta in quel modo e che il bello del calcio è anche solo mandare a quel paese un rivale storico un minuto dopo averlo applaudito per uno striscione. Oppure andare per la prima volta nella tana del tuo acerrimo rivale, finire la voce, uscirne incazzato eppure sentirti maledettamente vivo.