Gente che abbraccia altra gente che strattona altra gente, in preda all’euforia più incontrollata. Il racconto di una trasferta piena di endorfine, con il cielo sempre più blu e cento minuti passati senza il timore di perdere. Di beccare gol sì ma di perdere mai. E vincere così, in modo netto, quasi sfacciato, contro quel Ravenna che ti stava incollato senza mollare un colpo, è appagante come i cori cantati all’uscita sotto i gradoni del Benelli, dove rimbombavano che era una bellezza
Sarà una frase fatta, forse, ma oggi è ancora più bello di domenica. Ora che pian piano realizzi, metabolizzi quello che è successo e rivivi nella mente la partita, gli episodi, i gol, è come un rilascio prolungato di endorfine che ti fa vedere il cielo più blu anche se oggi è nuvoloso e che ti fa prendere più alla leggera anche un nuovo lunedì e un nuovo martedì eccetera eccetera. È stata una giornata trionfale come se ne contano sulle dita di una mano, anche se devo dire che ci stiamo abituando bene, il che non è affatto scontato e fa riflettere. Ravenna per certi versi ha ricordato Livorno di due anni e passa fa, impreziosita, però, dalla categoria superiore e, di conseguenza, da una qualità complessiva non paragonabile, oltre che dal fatto che le due squadre erano entrambe lassù, in cima alla classifica, addirittura a pari punti.

Una partita da non perdere per niente al mondo, insomma, anche se siamo ancora a ottobre e il rischio di rimanere fuori era alto visto il numero limitato di biglietti a disposizione. Per fortuna, però, in tasca ce li avevamo, e allora si parte, dopo una colazione da campioni in cui qualcuno addirittura ordina un gin tonic tra lo stupore generale, a testimonianza dell’entusiasmo tracimante. Poi, piadine e birre d’ordinanza una volta scavallati gli Appennini e dritti verso un nuovo stadio su cui mettere la bandierina. Il Benelli offre come settore ospiti un’ampia “piccionaia” di tubi innocenti costruita sopra il vecchio settore in muratura. Appena entriamo ci viene consegnato un cartoncino con scritto “attacchiamo” che, insieme all’ennesima birra appena presa al bar, contribuisce a far salire la carica ben oltre i livelli di guardia, com’è giusto che sia in partite del genere.
Il settore ha il fuoco dentro, come direbbe Bucchi, e si canta da tutte le parti, anche un po’ più in alto dove ci siamo sistemati noi per trovare un pizzico di spazio vitale. Il primo tempo, tutto sommato, fila via abbastanza liscio tranne quando Tenkorang stacca di testa e tutto lo stadio fa “oooooooh” come ad accompagnare la zuccata in rete. Invece è fuori, ritenta. L’Arezzo comunque non demerita mica, anzi, nel complesso cerca di fare la partita. All’intervallo si arriva senza gol e, in uno slancio tra l’ottimismo e il delirio di onnipotenza mi sbilancio: «Va bene così, si fa gol qui sotto che è più bello». Un amico che becco all’intervallo e non era con me, però, mi supera: «Ora mi metto qui e si segna». Da ragazzini si giocava insieme e aveva un mancino fatato, un po’ alla Pattarello che sta per calciare quella punizione. Il gol non arriva dal dieci ma è in quella stessa azione: un rimbalzo, due rimbalzi e il tiro di Tavernelli non trattenuto da Anacoura varca la linea di porta. I due secondi più lunghi della storia dell’umanità, poi la deflagrazione del settore che potesse esonderebbe giù, in campo e fino al mare. Siamo in vantaggio, nello scontro al vertice, fuori casa.
L’entusiasmo è alle stelle, il palo nega il raddoppio a Cianci e Anacoura, stavolta, non si lascia scappare un altro tiro centrale di Chiosa. Poi, quasi di colpo, la sofferenza, il pegno da pagare perché non può mica essere tutto facile, è pur sempre uno scontro tra prime della classe. Da lassù e dall’altra parte del campo alcuni momenti convulsi davanti alla nostra porta sono stati quasi indecifrabili, ma contava solo non vedere la nostra rete gonfiarsi e la curva di là esultare, non importa il come o il perché. Certo è che il bel gol di Ravasio è stato un’autentica liberazione: la consapevolezza di avercela fatta anche stavolta, e con merito. A momenti gli occhiali mi volano a Mirabilandia e quindi mentre tutti esultavamo come pazzi dovevo anche, con una mano, accertarmi di non perderli per sempre. Però che goduria: ho visto gente salire sopra altra gente che abbracciava altra gente che strattonava altra gente, tutti in preda all’euforia più incontrollata. Chissà da fuori che spettacolo vedere un settore che esplode letteralmente. Al gol di Varela, invece, il tappo era già saltato da un pezzo: altra esultanza, altre palpitazioni, altri abbracci e una gioia dentro indescrivibile a parole. Vincere è bello, ma qualche volta lo è di più.
E vincere così, in modo netto, quasi sfacciato, contro quella che finora ti stava incollata senza mollare un colpo, è un bel segnale. All’Ascoli, al campionato, e anche a noi stessi, perché no. Col senno di poi sembra retorica, ma non ho mai avuto la sensazione di poterla perdere, questa partita. Non dico di non aver avuto paura di non vincerla, perché a un certo punto ho temuto che un gol potessero farcelo. Ma di perderla mai. E questa, forse, è la sensazione più bella e appagante che lascia questa squadra che, numeri alla mano, è per ora tra le migliori della storia amaranto. Per concludere, prima che ci facessero uscire, ecco un’altra bella dose di entusiasmo scaricata con un bel po’ di cori sotto i gradoni, dove rimbombano ancora meglio. “Salutate la capolista” resta appena accennato, sospirato, quasi come una presenza eterea a cui nessuno, per scaramanzia, vuole dare forma fino in fondo. Però, tra un coro e l’altro e vari sfottò al Perugia precipitato in fondo alla classifica, ne parte uno che non facevamo da tempo e quasi non lo ricordavo più, ma ritirato fuori dal cassetto della memoria nel momento più indicato: “Tifosi dell’Arezzo cantate perché in campo c’è la squadra più forte che c’è…!”